Uno degli elementi che può definire l’identità di un territorio è indubbiamente il cibo. Esso sembra essere un vero e proprio linguaggio, come se parlassimo a noi stessi e agli altri. Rappresenta un messaggio e di conseguenza l’esprimersi di ciò che siamo e pensiamo, come la musica e la lingua.
Per noi italiani, sedersi a tavola, significa concedersi un momento importante della vita sociale. Non a caso fino alla generazione dei nostri genitori era consuetudine avere due ore di pranzo per condividere ciò che con tanto amore era stato cucinato. Oggi, invece, appare evidente come in un mondo globalizzato preparare da mangiare, implichi: pasti omogenizzati, beveroni che ti consentono di immettere tutte le calorie di cui hai bisogno oppure un semplice “metti in forno per 5 minuti”, rendendo così universalmente digeribile il mondo. Può avvenire che nel contempo di questo assurdo allestimento culinario ci siano messaggi da mandare agli amici su Facebook, Instagram, guardare un video su YouTube e in questo contesto si presenta il nuovo scenario che sembra inaccettabile per una madre di altri tempi: “il capitalismo digitale”. Non è il cibo ad essere obsoleto ma un tempo lontano che ormai non esiste più… (forse)…
…forse esistono ancora luoghi e persone che credono nella “resistenza culturale”, esistono coloro che non accettano i pressanti colpi omologanti della globalizzazione, esiste il cibo come elemento identitario e distintivo di una regione che crea orgoglio per le proprie tipicità culturali. Coltivare le tipicità vuol dire scegliere la biodiversità, vuol dire consumare cibo là dove è prodotto perché questo aiuta a ridurre l’inquinamento atmosferico, a sostenere l’economia locale, a tutelare l’intero ecosistema, a preferire un’agricoltura a filiera corta piuttosto che un’industria dedita al consumo di massa che degrada l’ambiente.
EH SI.. perché chi non si chiede come e per chi produrre sta calpestando la tradizione, il patrimonio culturale e la sopravvivenza di molti alimenti destinati adesso all’estinzione. Basti pensare alle molte varietà di fichi, presenti nella nostra zona salentina ormai diventate residuali, il melone di Gallipoli o il Pomodorino di Manduria. Quest’ultimo, ad esempio, è una varietà a forte rischio di erosione genetica. Sino a qualche tempo fa sembrava essere scomparsa del tutto ma è emerso, da diverse indagini, che ancora qualcuno lo ha custodito. Con un’altezza pari a 46 cm, 3-4 ramificazioni principali, bacche di color rosso arancio a sezione circolare, forma allungata, spesso appuntita il Pomodoro di Manduria è inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT).
Il pomodoro di Manduria ha una resa bassa rispetto agli ibridi commerciali e richiede molto lavoro. Per questa ragione, nonostante le ottime caratteristiche organolettiche (sia fresco sia trasformato), è stato via via abbandonato e sostituito da coltivazioni intensive.
Un altro ortaggio ad elevato rischio di estinzione è il “Cummarazzo” (in italiano chiamato “Carosello”). L’ area di distribuzione comprendeva Maruggio, Avetrana, Manduria, Sava, Oria e Torre Santa Susanna. Il successo di questa varietà è da intendersi nella sua resistenza all’aridocultura e alla predilezione di terreni argillosi. Questo alimento (una specie di melone dal colore verdino) ha la sua importanza in termini di apporto di sali minerali, per l’alto contenuto di potassio e sodio, ha una funzione detossificante, cardio-protettiva e riequilibrante.
Alcune aziende agricole soddisfano la richiesta locale mentre altre ne distribuiscono il germoplasma.
La Fava, come altri legumi, ha visto diminuire la sua produzione in Italia nel corso degli ultimi decenni, concentrandosi nelle regioni meridionali soprattutto in Puglia. Basti pensare che negli anni ’50 si coltivano 1,2 milioni di ettari di legumi, mentre negli anni 2000 solo 68.000 ettari. Il divario ampio è l’evidenza che la vulnerabilità della Terra è strettamente connessa all’azione di uomo egoista.
Pitagora riteneva sacra la Fava per il rito funebre; nell’antica Grecia si votava con diverse colorazioni di fave per indicare i candidati, legume di grandissimo consumo specialmente nei periodi di carestia, ad alto contenuto di proteine e fibre alimentari. Generalmente, gli agricoltori salentini piantono questa varietà di legumi in mezzo ai filari di olivi in modo da sfuggire alle gelate invernali e primaverili. E a proposito di oliveti, anche in questo spazio, esistono molteplicità di varietà di olivo radicate in territori diversi, in cui la Biodiversità è rappresentata da un numero rilevante di ‘olivi antichi’ che crescono in modo spontaneo in ambienti differenti e anche in condizioni limitanti. La Biodiversità è il risultato di un lungo processo evolutivo quali la combinazione di geni, mutazioni naturali, limitazioni climatiche estreme, presenza di organismi patogeni e suoli particolari. Queste sono solo alcune delle conseguenze delle scelte di una società volta all’industria alimentare, la quale considera il cibo merce per l’arricchimento di pochi e la Terra come unico fattore produttivo chimico, allo scopo di aumentare i profitti tanto attesi. Cambiamenti climatici, inquinamento industriale, sostituzione degli impianti agricoli tradizionali con l’automazione coincidono con il collasso della natura e la ribellione della stessa.
Bisogna difendere la biodiversità, consumare cibi prodotti da un’agricoltura attenta all’ambiente e favorire la diffusione degli orti. Bisogna assicurare la possibilità a tutti gli individui di nutrirsi in maniera adeguata, perché questa Terra ci sta chiedendo di fare PACE (anche se lei colpe non ne ha).
Bibliografia:
Dalla Rivista di Antropologia post-globale, speciale n.1, 2020, Antropologia del cibo Nuovo Almanacco Biodiverso, Biodiversità delle Specie Orticole della Puglia, Università degli Studi di Aldo Moro, Febbraio 2018
Presi in Ortaggio, Otto prodotti straordinari della Biodiversità pugliese, Renna e P. Santamaria, Biodiverso, Università degli studi di Aldo Moro